Sunday, December 20, 2009

Nel silenzio senti le voci più forti (Capitolo XXIII di ARIA)

Afferrai decisa la maniglia e rientrai nella villa. Ripercorsi i corridoi al contrario fino allo studio e senza bussare, né annunciarmi, ripiombai all'interno. Il padrone di casa era seduto sulla poltroncina, accanto al mobiletto degli alcolici, la bottiglia di cristallo contenente il whisky era poggiata sul piano di vetro. Lui stringeva il bicchiere spesso tra le dita; era vuoto. Lo sguardo, languido come non l'avevo mai visto, si sollevò su di me, ma subito mi sfuggì. Si riempì il bicchiere e buttò giù tutto in un sorso. Sembrava meno lucido di tutte le volte in cui l'avevo visto bere. Forse, pensando di essere rimasto solo, si era lasciato andare un po' troppo. Mi avvicinai con passi incerti, temendo qualche reazione improvvisa e magari violenta, non riscontrandola, mi sedetti sulla poltroncina accanto e rubai dalle sue mani il bicchiere, che era stato nuovamente riempito. Bevvi un sorso e glielo resi, ma lui si limitò a lanciarmi uno sguardo disorientato e a riprenderlo. Socchiuse gli occhi e si rilassò sulla poltrona. La voce malinconica e seducente si riversò nella stanza.

“Sono quello che sono...” mormorò assente. “Sono quello che sono. Sei quello che sei” aggiunse, buttando giù quello che restava del liquido chiaro. “Altro non c’è da aggiungere ad una così triste giornata di realizzazioni. Vivo perché devo. Perché credo ci sia qualcosa di meglio.” Ricadde il silenzio. Era decisamente poco lucido, se si azzardava a rivelarmi una cosa simile. Scosse la testa e si passò una mano tra i capelli corvini, risistemandoli. Volse le gemme smeraldo a rapire il mio sguardo e mi strappò un battito dal cuore. “Ma siamo sicuri che ci sia qualcuno disposto a darmelo?” chiese, piegandosi ad un sorriso amaro.

Trattenni l'istinto irresistibile di gettarmi ai suoi piedi e giurargli amore eterno. Chiusi gli occhi e cercai dentro di me, ritrovai la calma, concentrandomi sul mio respiro che si faceva regolare e quando parlai la voce uscì tranquilla e sicura.

“Se di ovvietà vogliamo parlare, allora ti dico che non c’è, perché non sei capace di comprendere che ci vuole tempo.”

Risollevai piano le palpebre e lo guardai, nonostante il momento e le parole, mi sentivo leggera e priva di dubbi.

“Sono quello che sono” ripeté assorto “E non devo essere altro al di fuori di questo ammasso di carne e spirito.”
Si versò l'ennesimo drink e la voce irresistibile e lieve riprese ad accarezzarmi.
“Sono quello che soffre per non essere compreso e non aver compreso. Sono quello che ha bisogno di sentire che c’è qualcosa che può avere. Qualcuno che lo possa amare...” il sussurro sprofondò ancora nel silenzio. L'alcool, che scorreva bruciante nella sua gola, che ormai colorava le sue guance, non riusciva ad eliminare del tutto le sue difese e i pensieri che rivelava erano pesanti come macigni. Si ridestò come da un incantesimo e gli occhi si riaccesero di una luce fiera e bellissima. Mi guardò di nuovo dritto negli occhi e parlò con urgenza, quasi volesse correggere un pensiero mal espresso, prima che fosse frainteso.
“Non sono quello che ho voluto essere, ma sono quello che ho imparato ad amare.”

La dolcezza che sentivo nel cuore, mi si dipinse sul volto. “Esibisci il tuo miglior sorriso e corri verso l’infinito” sussurrai complice. Volevo rivelare il segreto su di lui, che sentivo di aver appreso nel mio viaggio, felice di poterlo condividere con colui che mi aveva accompagnato, con colui che ne aveva più bisogno.
“Ti aspetta il traguardo che hai desiderato” aggiunsi contenta. “Unito” bisbigliai.
Per un attimo mi persi nel vuoto, finché la mente mi restituì l'immagine di Ofelia. Sentii che dovevo avvertirlo, perché mi trasmetteva una certa inquietudine l'immagine di loro due insieme, alle condizioni di lui. Ripresi a parlare, ma senza guardarlo.

“Lei è quel bisogno di pace che non avrai, perché non sei in grado di afferrarne il significato...” mormorai pensierosa. Guardai il liquido ondeggiare nel bicchiere mezzo vuoto, la sua mano tremava. “E anche se lo facessi non sapresti come riprodurlo in te.”

Posò il vuoto sul tavolino e si sporse su di me. I suoi occhi velenosi mi divorarono. Arrivò tanto vicino da sfiorare quasi le mie labbra. Sentivo il respiro ebbro sulla pelle, ma non mi mossi e continuai a guardarlo, neppure arrossii. Socchiuse le palpebre e sorrise maligno. Era certo di avere il controllo, di poterlo riconquistare in ogni istante e senza bisogno di parlare, mi intimava di non andare oltre. Eppure era immobile. Sollevai una mano a sfiorargli il volto delicato e sorrisi, baciando la punta del suo naso.

“Hai la fede, che non ti mancherà” ripresi senza paura. Gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo tirai al mio petto. “Torna da me se vuoi o lasciati cullare dal tuo perdono per quelli che, esemplarmente, hanno scelto di non sapere. Perché la tua sofferenza dipende anche da loro.”
Baciai i capelli scuri e profumati d'oriente. Li carezzai con la guancia, inspirando a fondo ogni sfumatura di quel momento, per poterlo riconoscere per sempre. La mia porta non si sarebbe mai chiusa e non c'era più nessun dubbio. Lo amavo e volevo che lo sapesse e non lo dimenticasse mai. Ero felice di aver compreso, forse anche più di lui, quale fosse il tipo di amore di cui aveva bisogno. Ero felice di poterglielo dare, di potergli dare tutto quello che il mio cuore avrebbe desiderato di dargli, di non dovermi preoccupare di quando, cosa o come. Potevo vivere ogni momento e ogni momento avrei avuto con me, dentro di me, tutte le persone che amavo. Non avevo più paura di perdermi o di soffrire, di sbagliare o di far soffrire. Tutto era così bello. Così tanto da non sembrare vero. Sorrisi e lo strinsi più forte. Louis non si mosse e, a capo chino, si lasciò cullare tra le mie braccia come un bambino, finché sentii le sue mani scorrere sulla mia schiena, fino a ricambiare la stretta.

“Ti ho amato e non smetterò mai di farlo” dissi piano, lasciando scivolare nell'aria il peso di quell'emozione, lasciando scivolare l'aria leggera nel mio petto.
Sollevò il capo a guardarmi e per un attimo il suo sguardo sembrò rimproverarmi, ma poi sorrise.
“Sei felice come avrei voluto, anche se non hai avuto bisogno di me” considerò malinconico “Proprio come loro.”
“Non è vero, non ci sarei riuscita senza di te e volevo ringraziarti anche per questo” risposi sicura.
“Nemmeno io smetto di amarle, tutte le persone che ho amato” mormorò, distogliendo lo sguardo. Si rimise composto, riempiendosi nuovamente il bicchiere. “Soltanto non riesco a restar loro vicino, perché so che finirei per far loro del male.” Alzò il bicchiere in un mezzo brindisi verso di me. Ne bevve un sorso e poi si strinse nelle spalle. “Bisogna essere consapevoli dei propri limiti, non credi?” aggiunse e si lasciò sfuggire una risatina.

Scossi il capo con foga e gli pizzicai appena la guancia.
“Sempre il solito!” ridacchiai sollevata.

Monday, December 14, 2009

Chi sarà AEL ALAPAR?

Non so se devo fidarmi del sentire o di me stessa. Sento lacrime, silenzio e freddo. Sento che il momento è arrivato.
La guida mi aveva avvertito.
Eppure devo avere fiducia, non posso fare altro, devo avere fiducia e tutto andrà bene.

Ti amo.

Continuerò a ripeterlo, finché potrò, perché voglio che questo momento ne resti intriso così tanto da far sì che anche dopo dieci anni di silenzio tu possa sentire la mia voce ripeterlo.